Ascensione del Signore (24/05/2020)


Ascensione del Signore

NOTA: Le letture della Domenica dell’Ascensione del Signore sono disponibili cliccando qui, in formato stampabile per chi desiderasse seguire la messa in diretta.

Riflessione: Ascensione del Signore

A prima vista, la Festa Solenne dell’Ascensione di Gesù al cielo non ha bisogno di molte spiegazioni: quaranta giorni dopo essere risorto dai morti, Gesù ha concluso la sua vita terrena; è salito al cielo, dove noi collochiamo idealmente Dio.
In realtà, leggendo con attenzione i racconti degli incontri di Gesù Risorto con i suoi discepoli, ci si accorge che il Risorto non è più esattamente quello che aveva condiviso con loro gli ultimi tre anni della sua vita: appare, si lascia toccare, parla e mangia con loro; ma poi scompare. Dovremmo imparare che nel giorno in cui è risorto, Gesù è già “salito alla destra del Padre”, là dove l’ha condotto la sua vita da Figlio, sempre fedele e in comunione col Padre.
Dunque l’Ascensione è in realtà una “faccia” fondamentale della Risurrezione; i quaranta giorni servono ai discepoli (di allora e di oggi) per capire un po’ meglio quello che è avvenuto e ha trasformato la loro (la nostra!) vita.
L’evangelista Matteo non racconta il momento dell’Ascensione di Gesù; ma nel “prostrarsi” e nel “dubitare” dei discepoli c’è tutta la fatica e la contraddizione che accompagna questo formarsi in loro di un nuovo rapporto con Gesù.

È un rapporto che deve maturare, perché a loro, alla Chiesa, Gesù sta per affidare una missione: la stessa che il Padre aveva affidato al Figlio; e il Figlio l’ha vissuta con tutta la sua vita.
La missione: Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”.
“Andate”
: in realtà il vangelo direbbe “andando”; più che un ordine imperativo, indica uno stile che deve entrare nella nostra vita come abituale e continuativo, quotidiano, lungo le strade del tempo; si tratta di essere annunciatori del vangelo nella quotidianità della vita.
“Fate discepoli”
, allora, non significa arruolare forzatamente qualcuno, ma condividere con qualcuno la propria fede, condividere la vita. Papa Francesco usa un’espressione difficile da spiegare, perché difficile da capire e da accogliere: “attivare dei cammini nel tempo, piuttosto che occupare degli spazi”.
“Battezzandoli”
: immergendoli con la loro vita dentro il rapporto filiale con il Padre.
“Insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”: ricordate domenica scorsa? “Chi mi ama, osserva i miei comandamenti; chi osserva i miei comandamenti, mi ama”. Potremmo tradurre così: Insegnate diventando segni credibili della Parola che avete ricevuto; annunciate ciò che amate
“Io sono con voi”
: così si conclude il Vangelo secondo Matteo. L’ultima parola di Gesù è per rassicurarci riguardo al suo starci vicino.

In queste parole c’è la sua promessa; dovremmo imparare a non utilizzarle come una garanzia, un’assicurazione. Ci ricordano che Gesù ha dato la sua vita a noi, per noi; un dono che è per sempre. Proprio nel momento in cui la sua assenza fisica diventa definitiva, Gesù proclama la sua presenza viva e vera dentro la nostra vita. Questo è l’annuncio consolante che rende gioiosa questa Festa Solenne della Ascensione del Signore Gesù.

Approfondimento: “L’orfanezza”

L’ultimo pensiero nell’Omelia di domenica scorsa (VI di Pasqua) era proprio legato alla affermazione di Gesù: “Non vi lascerò orfani”; pensiero appena accennato. Vi propongo questo articolo per la lettura e la riflessione: corrisponde a quello che avevo nella mente e nel cuore e che non ho potuto comunicare domenica scorsa.

Don Francesco

“L’orfanezza” che proviamo e la promessa che rincuora

Marina Corradi – AVVENIRE 20 maggio 2020

Nell’ultima Messa mattutina in diretta tv e social, il Papa lascia il segno «Oggi nel mondo c’è un grande sentimento di “orfanezza”: tanti hanno tante cose, ma manca il Padre».

È domenica mattina. Ascolti il Papa, per l’ultima volta nelle Messe da Santa Marta aperte al popolo della tv e dei social, e le sue parole ti sembrano una freccia che lascia il segno, cogliendo il bersaglio. Un bersaglio dolente e misconosciuto: qualcosa che riguarda il nostro modo di vivere, nel suo livello più profondo.

“Orfanezza”, dice Francesco, e ti pare uno strano sostantivo (esistente però, dice il vocabolario); un’espressione che tuttavia centra con precisione un malessere carsico del nostro tempo.

“Orfanezza”: il sentimento di non avere un Padre e dunque di non essere un figlio. Di non camminare in un disegno, ma dentro un caso cieco. Forse lo può capire meglio chi non è sempre vissuto nella fede: percepirsi soli, chissà perché venuti al mondo, e non veramente cari a nessuno.

Chi ha ereditato in famiglia una fede di roccia, stenta magari a immedesimarsi in questa assoluta solitudine, che però accomuna oggi un grande numero di uomini e donne.

 Quando le cronache raccontano di vandalismi gratuiti, di aggressioni ai deboli, di cattiverie senza ragione, ecco: sembra di vedere sotto a questo male stupido, al male fatto per passare il tempo, quella vena sotterranea di cui parla Francesco: “orfanezza”.

Sbandamento, noia, aggressività da figli di nessuno. Figli che nessun Padre, e forse nemmeno un padre in carne e ossa, aspetta a casa, la sera.

«Soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi. Sempre le guerre, sia le piccole guerre sia le grandi guerre, sempre hanno una dimensione di “orfanezza”: manca il Padre, che faccia la pace», ha continuato Francesco.

E di nuovo la sensazione di sentire evocare l’origine, una radice antica della violenza tra gli uomini. Da quella immane dei conflitti mondiali e delle persecuzioni, a quella “piccola” di certe liti di condominio, apparentemente banali, e che però si trascinano per anni e creano “piccoli” odi tenaci. Perché se non si è figli di un Padre, non si è nemmeno fratelli. Se non c’è un vincolo d’appartenenza e amore forte come asse portante di sé, tutto il resto è sospeso alla consistenza della persona. Che può essere leale e perfino stoica, oppure instabile e incerta, o concentrata solo sul proprio interesse. Ma manca un centro, su cui gravitare. (Ha scritto Kafka: «Anch’io, come chiunque altro, ho in me, fin dalla nascita, un centro di gravità, che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo centro di gravità, ma, in un certo qual modo, non c’è più il corpo relativo»).

«E una delle conseguenze del senso di orfanezza è l’insulto», aggiunge il Papa.

Pensi all’odio che tracima dal web nei messaggi degli haters, gli odiatori: che odiano gli immigrati, o gli ebrei, o i musulmani, o quelli che non la pensano come loro. Protetti dall’anonimato vomitano un odio che probabilmente nella vita quotidiana dissimulano. Una quantità di odio che spaventa. Ma anche quello, dice Francesco, è un male che attinge all’ “orfanezza”, al non essere figli, né fratelli. All’essere soli e, forse, smarriti in fondo nell’angoscia e nello spavento. Come bambini nel buio.

«Non vi lascerò orfani»: è la promessa di Cristo nel Vangelo di Giovanni, che il Papa ci ricorda. Promessa e memoria da rinnovare ogni mattina.

Non siamo orfani venuti al mondo per un caso fortuito, abbandonati alla Fortuna cieca dei pagani. Pensiamo a come una madre e un padre guardano, istintivamente, un figlio appena nato. Non sarà infinitamente più grande l’amore di Dio per ogni uomo? Ricordarlo, per sottrarci ai vapori di questa “orfanezza” che marca il nostro tempo. Pieno, per molti, di tante cose che una volta non c’erano; ma mancante, dolorosamente, di ciò che è più necessario.