NOTA: di seguito viene proposta la riflessione di Don Francesco per il Giovedì Santo. Le letture relative alla S. Messa in Coena Domini sono disponibili cliccando qui, in formato stampabile per chi desiderasse seguire la messa in diretta.
In questo inizio del triduo pasquale, il silenzioso insegnamento dei gesti è più significativo e importante delle parole: quelli di Gesù sono gesti che annunciano il dono di sé; l’offerta di sé, irreversibile e senza pentimento. Era già stato così per il rito della prima Pasqua: quella del passaggio dalla schiavitù in Egitto alla libertà. L’agnello da immolare al tramonto; il suo sangue da porre sui due stipiti e sull’architrave delle case; il modo di mangiarlo insieme “con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano” : con la fretta, non di chi fa le cose superficialmente e senza consapevolezza, ma di chi è pronto a partire subito, a mettersi in movimento, a intraprendere il cammino dall’oppressione alla libertà, dalla schiavitù alla libera scelta di servire il Signore e i fratelli.
E’ ancora così per noi cristiani. Quello che dovremmo trasmetterci “di generazione in generazione” è quello che il Signore Gesù ha fatto “nella notte in cui veniva tradito”: il pane, preso e spezzato dalle sue mani, il calice, alzato alla fine della cena; e, per capire ancora meglio l’impatto di questi gesti sulla concretezza dei nostri reciproci rapporti, la lavanda dei piedi, questo sconvolgente abbassarsi di Gesù, “Maestro e Signore”, davanti ai Suoi discepoli, davanti a noi.
Le azioni, più che i discorsi e le dichiarazioni; la concretezza nell’entrare in rapporto con gli altri, più che l’astrattezza delle idee: ecco quello che noi cristiani dovremmo trasmetterci di generazione in generazione, con cura trepidante, consapevoli della fiducia con cui il Signore Gesù si mette nelle nostre mani.
Ai gesti Gesù aggiunge le parole: “questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”, “fate questo in memoria di me”. Sono le stesse parole che da secoli ripetiamo quando ci raduniamo a celebrare l’Eucaristia nel suo nome. Non sono parole che aggiungono qualcosa , ma spiegazioni di quello che sta avvenendo: il donarsi totale del Signore Gesù per noi.
Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, dovremmo anche noi proclamare con il popolo della Prima Alleanza: “È la Pasqua del Signore”: ci libera in modo definitivo dal male; il Suo passaggio dalla morte alla vita dona anche a noi di partecipare con Lui alla Sua Pasqua.
Il Suo proposito di salvarci diventa realtà nel segno del cibo e della bevanda; sono realtà destinate a essere assimilate concretamente e a trasformarsi nella vita concreta di chi li assume: non solo dalla nostra mente o dalla nostra sensibilità naturale, ma da una fede che si trasforma in vita.
“Signore, tu lavi i piedi a me? Tu non mi laverai i piedi in eterno!”
Questa sera siamo chiamati a vincere, nel nostro cuore, la stessa resistenza manifestata da Simon Pietro. Quel suo nascondersi dietro il paravento di una apparente religiosità che, con il pretesto di mettere Dio in alto, sopra le vicende di questo mondo, non lo lascia di fatto operare nel concreto della nostra vita: sui piedi, sulla parte del corpo umano che ci tiene piantati sulla terra.
Anche qui vediamo quanto i gesti di Gesù abbiano la capacità di comunicare un mistero che le parole umane non possono afferrare: “quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”.
Questo rimane valido anche per noi, oggi, invitati al banchetto preparato dal Signore. Lo celebriamo sapendo che ciò che viene fatto davanti ai nostri occhi e che insieme facciamo in sua memoria, obbedienti al suo comando, non lo possiamo capire mentre celebriamo il rito, ma cominciamo a coglierne il significato profondo solo dopo: nella vita, nell’incontro con i fratelli e le sorelle che ci troviamo accanto, a casa, per strada, a scuola, sul posto di lavoro.
“Capite quello che ho fatto per voi?”.
Vengono i brividi nel riascoltare questa domanda. È evidente che non lo abbiamo ancora capito, che stiamo ancora arrancando, che facciamo terribilmente fatica ad arrivare a quel “dunque”, evocato da Gesù: “Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”.
La nostra speranza, però, si appoggia con fiducia al fatto che i gesti di Gesù rimangono tra noi, affidati ancora oggi alla Chiesa, segno della fedeltà senza condizioni con cui Dio continua a cercare di recuperarci a Lui nel Figlio: in ogni nostra celebrazione, in ogni nostro radunarci per fare “questo” in memoria di lui.
“Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”.
Dobbiamo permettere a Dio di forgiarci nel tempo, attorno al pane spezzato e condiviso, al vino versato e offerto: uomini e donne portatori del Vangelo nella nostra carne, nella nostra storia; seminatori di quella speranza che dalla morte di Gesù in croce ha cominciato a scorrere come linfa nelle vene della storia umana.
Da persona a persona: dai gesti compiuti da Gesù per noi, ai gesti che siamo chiamati a compiere gli uni per gli altri.
È la Pasqua del Signore. Vale la pena questa sera pensare seriamente a quello che il Signore ha fatto per noi e continua ad affidarci da compiere. Nelle sue azioni, di cui facciamo memoria celebrando l’Eucaristia, c’è sempre più di quello che crediamo di avere già capito; ma soprattutto c’è una forza sempre nuova per fare quello che di volta in volta ci è dato di capire.