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Riflessione
Abbiamo ascoltato un brano di vangelo piuttosto lungo e articolato. Al centro del racconto, un’esperienza che conosciamo bene: l’esistenza umana è segnata da malattia e morte. Il papa S. Giovanni Paolo II diceva che “dolore e malattia fanno parte del mistero dell’uomo sulla terra”.
Nel Vangelo Gesù ci dice che l’esperienza del dolore può essere illuminata dalla fede. Quello del male, del limite, della morte è un punto nevralgico della nostra esistenza: rimanda all’incontro con la verità su noi stessi e sulla meta a cui siamo chiamati e verso la quale siamo in cammino.
Cerchiamo di conservare sullo sfondo della riflessione le parole del Salmo Responsoriale: “Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato”.
Provo a mettere in evidenza alcuni aspetti contrastanti che sono presenti nel vangelo di oggi: religiosità e fede (ancora una volta!); guarigione e salvezza; fede e cultura umana.
Religiosità e fede.
Nel racconto del vangelo ritorna per due volte il numero 12: la donna è ammalata da 12 anni; la bambina morta ha 12 anni. Dodici come le tribù del popolo di Israele: l’intero popolo al quale Dio ha fatto dono dell’Alleanza, a motivo della sua fede.
Ma l’Alleanza si è inaridita e non è più capace di dare vita; il capo della sinagoga vede la figlia andare verso la morte; la sua religione non è più in grado di salvare: non serve alla vita, ma porta alla morte.
Gesù è tornato dalla sponda dei pagani alla sponda dei credenti; cerca nel popolo di Israele fede per una Nuova Alleanza: una fede che si basa e si realizza solo nell’affidamento totale alla persona concreta di Gesù, riconosciuto e accolto come vero Uomo e vero Dio. Quella della fede è una relazione che impegna tutta l’esistenza umana: per questo può salvare la vita nella sua interezza; la vita ricevuta da Gesù (nel Battesimo) non può essere tenuta separata da quella ricevuta dai genitori: solo se la assorbe in tutti i suoi aspetti, la salva.
Guarigione e salvezza.
Può bastare l’integrità fisica (guarigione), quando non riusciamo più a comprendere cosa può dare realmente senso alla vita umana (salvezza)? È sufficiente godere di buona salute (guarigione), se non si capisce più (e perciò non lo si sceglie più) che è necessario fare della propria vita un dono perché abbia un senso (salvezza)? Basta la guarigione, se, per salvare la vita, non si è in grado di uscire da un modo di pensarla che mette se stessi al centro?
Fede e cultura umana.
Le regole della religione avrebbero proibito l’incontro tra Gesù e la donna ammalata, tra Gesù e la fanciulla morta; la donna, con il suo gesto, rischia la morte per lapidazione; Gesù rischia di essere punito perché ha toccato una morta. La religiosità tende a ricondurre la fede al livello della cultura umana, a un’esperienza che può essere gestita dall’uomo e in cui il protagonista è l’uomo (non Dio!): può allontanare dalla fede, fino a non essere più fede.
“La tua fede ti ha salvata” (alla donna)
“Soltanto abbi fede” (al capo della sinagoga)
È dalla fede che nasce un rapporto giusto con la vita: da una relazione di fiducia e di affidamento assoluto nei confronti del Signore. È la fede che ci aiuta a non perdere la certezza di essere “figli amati”, anche quando attraversiamo la prova.
Là dove c’è l’esperienza di un’impotenza riconosciuta, diventa più facile scoprire e vivere una relazione con Dio capace di farci attraversare le notti della vita e di donarci conferme riguardo alla volontà di Dio: “Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità; lo ha fatto immagine della propria natura” (2° lettura).