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Riflessione
Domenica scorsa il Vangelo secondo Matteo ci ha introdotti nel discorso sulla Chiesa. E’ indispensabile scoprire e capire che la nostra fede individuale deve condurci nel rapporto con Dio dentro la Chiesa che celebra e rivive la Pasqua di Gesù, celebrando i sacramenti della nostra salvezza.
“Come vivere i rapporti di fede all’interno della Comunità cristiana?”
La “correzione fraterna” rivela la presenza di Gesù all’interno della comunità cristiana e nei confronti del mondo intero; rivela che la grazia di Dio ci ha già liberati perché ci ha condotti in una esperienza di perdono: solo chi ha già sperimentato il perdono su di sé, è in grado di aiutare il fratello a scoprire il male presente nella sua vita.
Eccoci dunque alla domanda di Pietro: “Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” E quando sono io a peccare contro il mio fratello? Non siamo di fronte a una ipotesi, a qualcosa di probabile: non è un’eventualità, è una certezza; accade sicuramente.
La risposta di Gesù: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. La regola delle scuole rabbiniche diceva: “tre volte al giorno”. Pietro, dicendo “sette volte”, chiede a Gesù se bisogna perdonare sempre.
La misura del perdono deve essere proporzionata al peccato: il male ci accompagna sistematicamente; se vogliamo vivere la fraternità, dobbiamo prepararci alla presenza del peccato nella nostra vita e in quella dei fratelli; per questo il perdono è necessario sempre.
Gesù, per spiegare la sua risposta a Pietro, narra una parabola divisa in tre scene. In questa parabola è tutto inverosimile; proprio questo la rende chiara nel suo significato: il perdono di Dio per noi deve diventare il motivo e la misura del perdono tra noi.
Prima scena: il re condona al suo servo un debito immenso. Diecimila talenti equivalgono a seimila tonnellate d’oro; tanto per avere un’idea: uno storico del tempo di Gesù dice che il re Erode aveva un patrimonio equivalente a duecento talenti.
Seconda scena: il servo debitore condonato si rifiuta di condonare un debito di cento denari (tre mesi di paga). Ecco il significato della parabola: il primo servo non ha capito e accolto nella sua verità il condono/perdono ricevuto dal re; lo sguardo del servo è rimasto rivolto a sé; egli legge ancora la sua vita in funzione di sé; tiene il perdono per sé. Non ha ancora capito che ha ricevuto un miracolo di amore, che la sua vita è un dono ricevuto e rinnovato dal perdono.
Terza scena: il servo finisce in prigione. È rimasto prigioniero del suo “io”; la sua vita non è stata liberata dal perdono ricevuto.
Nel Vangelo di oggi Gesù ci insegna il rapporto indissolubile tra la gratitudine verso Dio che ci perdona e il nostro perdono donato agli altri. Il nostro rapporto con Dio è sincero solo se si manifesta nel perdono verso gli altri. Solo il perdono di Dio ripiana il nostro debito verso il Padre. Il perdono tra noi è il “luogo” del rivelarsi di Dio, ma è anche giudizio di Dio su di noi: “Rimetti a noi i nostri debiti come “anche” noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Se non perdoniamo, il Padre non può riconoscere in noi la somiglianza con il Figlio Gesù. In Gesù l’amore di Dio si rivela come perdono in tutta la sua forza nel momento cruciale della Passione/Morte/Risurrezione. È stato così anche per Santo Stefano, il primo martire/testimone; è stato così anche per Suor Maria Laura Mainetti: sono morti perdonando coloro che li uccidevano. Il perdono donato a chi dava loro la morte ha rivelato la loro profonda comunione con il Padre, la loro santità.